Marco Boato - attività politica e istituzionale | ||||||||||||||||
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Trento, 11 marzo 2015 Non ho mai espresso soddisfazione per una condanna giudiziaria, a meno non si trattasse di fatti di mafia, criminalità organizzata o terrorismo. Capisco quindi lo sconcerto di Silvano Grisenti per la conferma definitiva, da parte della Corte di Cassazione, della condanna per tre reati che aveva già ricevuto dalla Corte d’appello di Bolzano e che, assistito dai suoi capaci difensori, sperava di vedere modificata, dopo un altalenarsi delle precedenti pronunce giudiziarie, inclusa quella in cui erano stati fortemente ridimensionati gli originali capi di imputazione. Capisco anche la solidarietà umana dei politici a lui più vicini e dello stesso Lorenzo Dellai, da cui si era staccato in modo frontale dopo quasi due decenni di solidale impegno politico. Quando esplose l’inchiesta denominata «Giano Bifronte», nel settembre 2008 all’immediata vigilia delle elezioni provinciali, ricordo nel tavolo del centrosinistra autonomista un Dellai fortemente turbato, addirittura pronto a ritirare la propria candidatura a presidente (per la terza volta), al quale però tutte le forze della coalizione espressero solidarietà, ritenendolo, come in effetti era, estraneo allo scandalo giudiziario. Ricordo pure che – quando, subito dopo le elezioni politiche del 2006, io stesso, appena rieletto deputato per i Verdi, sollevai sul piano politico (non su quello giudiziario) la vicenda della «magnadora» sulla base di una fonte certa – il presidente Dellai mi accusò spudoratamente di mentire, salvo rimangiarsi l’accusa irresponsabile quando le mie rivelazioni furono confermate, qualche giorno dopo, da Renzo Anderle, allora sindaco di Pergine e presidente del Consorzio dei Comuni trentini. Se mi si fosse dato ascolto allora – allorché eravamo di fronte a un grave episodio di malcostume politico, ma privo di riflessi giudiziari forse non si sarebbe mai arrivati al punto a cui poi si è giunti, con l’improvviso passaggio di Grisenti dalla giunta Dellai alla presidenza dell’A22, fino allora retta con scrupolo daWilleit. La vicenda giudiziaria di Grisenti solleva qualche legittimo dubbio su alcuni aspetti (non su tutti) per il carattere oscillante, per così dire, delle alterne pronunce. Ma, a mio parere, fa emergere con forza una lezione rispetto allo «stile» della politica, a un certo modo di fare politica, che ha trovato troppa condiscendenza quando invece poteva essere fermato o ridimensionato, e rispetto alla moralità della politica, a un codice etico che dovrebbe comunque prevalere, anche quando non è fissato in precise regole statutarie dei partiti. Nell’autunno 2013 avevo ritenuta inopportuna la candidatura di Grisenti al Consiglio provinciale, avendo egli già ricevuto una condanna definitiva da parte della Cassazione ed essendo in attesa di un nuovo processo in appello. Era comunque un giudizio di opportunità, sul piano della moralità politica, a fronte della mancanza di un qualunque codice etico nella formazione politica di Progetto Trentino, da lui promossa. Essere garantisti – quale io sono e sono sempre stato nei confronti di chiunque non significa essere innocentisti (equivoco in cui molti cadono), ma comporta invocare il pieno rispetto delle regole dello Stato di diritto nelle vicende processuali e la presunzione di «non colpevolezza», fino a condanna definitiva, prevista dalla Costituzione. Nel caso di Grisenti la «presunzione di non colpevolezza» andava doverosamente applicata per quanto riguardava le diverse imputazioni per cui era stato condannato in appello a Bolzano, fino alla nuova pronuncia della Cassazione. Ma questa ora è arrivata – in modo forse imprevisto, considerata la diversa richiesta della Procura generale – ma certamente definitivo. In realtà, per un capo di imputazione la condanna era già definitiva per il precedente giudizio in Cassazione e mancava solo la quantificazione esatta della pena, statuita poi dalla Corte d’appello di Bolzano. Anche senza alcun obbligo giuridico ed esclusivamente sotto il profilo della responsabilità etica, il problema politico si era dunque già posto un anno fa, come si era già posto nella fase di presentazione della candidatura di Grisenti alle provinciali del 2013. L’unico giudice al riguardo, all’epoca, non era la magistratura, ma la propria coscienza e i criteri di etica politica di «Progetto Trentino». Ora la condanna definitiva supera tutti i problemi di «opportunità», e deve confrontarsi anche con l’inesorabile scure della legge Severino, che comporta la decadenza definitiva dal mandato di consigliere provinciale, da cui qualche mese fa Grisenti era stato sospeso, e pure l’incandidabilità per la prossima legislatura. Anche la legge Severino ha suscitato dubbi e perplessità: basti osservare, a prescindere dal caso Berlusconi, quanto sta avvenendo in Campania, dove il candidato Pd alla presidenza della Regione rischia di essere sospeso dalla carica subito dopo l’eventuale elezione, anche di fronte a una condanna non definitiva. Poiché quella legge è stata approvata in parlamento quasi all’unanimità, c’è da chiedersi come mai tanti dubbi sorgano solo «a posteriori», di fronte alle sue prime applicazioni. E bisogna continuare a chiedersi se la politica non dovrebbe arrivare prima, con le sue assunzioni di responsabilità, di quanto possa arrivare la giustizia penale, anche quando questa suscita legittime perplessità. Non è vero che le sentenze non si possono commentare, come si usa ripetere scioccamente: ci mancherebbe altro, essendo la libertà di pensiero e di opinione un diritto costituzionalmente garantito, anche di fronte all’operato della magistratura. È vero invece che le sentenze divenute definitive si debbono rispettare e, possibilmente, si dovrebbero prevenire con adeguati comportamenti politici. Ciò vale per Grisenti come per chiunque altro. Marco Boato
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